A giugno 2005 Robertlandy cammina con passo deciso verso il palazzetto. Si gioca il secondo set al Pala Candy di Monza. Odelvis Dominico esce dal campo infortunato. Simon, il ragazzo della maglia cubana numero 13, entra al suo posto. Ha solo 17 anni e fa lo esordio nella World League contro un’Italia inarrestabile. Dall’altro lato del campo, personaggi come Luigi Mastrangelo e Alessandro Fei. Appena un mese dopo, già con 18 anni, sale sul podio.

Simón, con la maglia 13 di Cuba, il giorno dell’esordio con la sua nazionale
Poco dopo quel traguardo, ripete il bronzo, ma stavolta nel Mondiale under 21 disputato in India. La sua storia continua a Rio, nel 2007, dove si giocano i Panamericani. Un’altro bronzo e la medaglia al miglior centrale della competizione.

Con la 13, nella finale del Mondiale 2010 contro il Brasile
Le cose solo possono migliorare per Robertlandy, perché nel 2009 in Giappone, conquista l’argento nella Coppa di Campioni. Cuba è una delle nazionali migliori al mondo e lui è parte di quel successo, è il suo capitano. E non solo, ottiene altri 3 premi: l’MVP della competizione, il miglior centrale e il best scorer in termini di ace.

Landy, contro Brasile, nella prima fase del Mondiale Italia 2010
Nel 2010, Mondiale disputato in Italia, la Cuba di Robertlandy è inarrestabile. La nazionale caraibica ha una formazione quasi insuperabile, dove si distinguono anche Wilfredo Leon y Yoandy Leal. In questa competizione è la formazione verdeoro chi ferma la scia vittoriosa della squadra cubana. Nonostante ciò, il nostro Landy è scelto miglior “blocker” del torneo. Cuba vince un’altra medaglia d’argento.

Una gioia immensa: Cuba, alla finale del Mondiale 2010
Con 23 anni, prima di iniziare la World League 2011, la sua storia si spezza. Il capitano della nazionale cubana decide di allontanarsi, lasciare la nazionale. Una decisione che non è pressa bene dalla federazione, ma lui conferma senza dubitare.
In quel momento, «Landy» comincia un percorso legale che finirà a novembre di 2012, quando la FIVB gli conferisce il transfer che l’abilita ad aggiungersi come giocatore professionista nella Superlega Italiana, precisamente nel Copra Elior Piacenza.
“Dovevo prendere una decisione per la mia vita. Cuba voleva vittorie, noi vincevamo, ma non davano nulla in cambio. Io ero un po’ stanco di questa situazione, quindi un giorno mi alzai e dissi a mia mamma “Madre, non giocherò più per la nazionale cubana. Vado a cercarmi la vita in un’altra maniera”. Io sapevo che ero bravino e nella mia testa c’era solo un obiettivo: essere professionista. Perché non potevo? ricorda Robertlandy in dialogo con The Cecco 15.
“Dovevo fare qualcosa di diverso. Sono andato via della nazionale e mi dicevano che mi avrebbero dato tempo per pensarci su, perché non erano d’accordo con la mia decisione. Alla fine, io sono rimasto fermo e ho deciso di non tornare più. Allora loro mi hanno cancellato l’accesso ai centri sportivi di Cuba. Ho accettato perché ero io chi avevo preso questa strada. Si sono mantenuti nella loro posizione e io nella mia”, aggiunge il centrale che oggi condivide formazione con Luciano De Cecco.
– Senza la possibilità di allenarti bene, sicuramente hai trascorso momenti difficili fino a quando non ti sei trasferito in Italia.
– La possibilità di giocare in Italia mi arriva un anno dopo. Durante quell’anno sono stato per strada, giocavo un po’ calcio per sudare un po’, facevo addominali, tutti i tipi di esercizi che non hanno bisogno di una palestra. Ricordo che c’era un palazzetto d’erba aperto, quindi andavo lì e facevo il mio tutti i giorni. All’improvviso, mi arrivano notizie da Piacenza, volevano che andassi a giocare per loro. Gli spiegai che non era facile, che ero in mezzo ad un processo legale. Loro (per fortuna) si sono mantenuti fedeli a me e, inoltre, mi hanno pure aiutato.
–¿Come era la tua vita a Cuba, senza lavoro?
–Vendevo riso, zucchero. Sono cose che un cubano le fa naturalmente. Per sopravvivere a Cuba uno esce per strada e vende quello che gli mettono in mano.
– Durante gli anni, molti di tuoi connazionali si sono aggiunti ad altre nazionali. Hai sempre mantenuto la tua decisione di non metterti un’altra maglia che non fosse quella cubana?
– Beh, è arrivato un momento in cui volevo giocare le Olimpiadi. E Cuba non voleva tornare indietro con la sua decisione “tu non torni più”. In quel momento ho perfino commentato questo con Luciano De Cecco “Parla con la tua nazionale, magari prendo la nazionalità argentina”. Però, alla fine non è stato possibile. Dopo sono arrivati il Canada e Bulgaria a chiedermi di prendere la loro cittadinanza. Ma neanche con loro c’erano vere possibilità. Alla fine, ho desistito.

Di nuovo con la maglia cubana, dopo il ritorno in 2019
– Ma nel 2019, sei tornato a giocare per Cuba. Come si è gestito quel ritorno?
– Un mio amico mi disse che aveva parlato con l’allenatore della nazionale e che, se ci presentavamo e chiedevamo un permesso, magari saremmo stati accettati. Ricordo che gli ho detto: “non scherzare!”, e mi rispose che dovevamo provarci. Quindi riprendiamo il contatto con Cuba, ci dissero che appena saremmo tornati per le vacanze, avremmo avuto delle riunioni. E fu così! Sono molto contento di rappresentare nuovamente a Cuba. Per fortuna, non c’è stata un’altra maglia di mezzo.
– Chi rappresenti ogni volta che ti metti la maglia rosso blu?
– Il mio paese cubano, la mia famiglia, tutte le persone che lottano ogni giorno. A quelle persone penso quando gioco per la nazionale. Vorrei tanto che il volley maschile cubano torni a essere importante e che si possa giocare nella Città Sportiva di La Habana, uno dei posti più belli dove ho giocato nella mia vita.
– Tanti giocatori cubani oggi vestono altre maglie diverse: Juantorena in Italia, Leon in Polonia, Leal in Brasile. Con questi compagni la nazionale cubana sarebbe stata una delle migliori dell’ultima decade?
– La gente dice di sì. Potrebbe essere vero oppure no. Giocando per la Lube mi sono reso conto che aldilà dei giocatori forti che puoi avere in squadra, se un coach non ti sa guidare bene, se prendi una cattiva decisione o se c’è poca unione tra gli stessi pallavolisti, non vai da nessuna parte.
Puoi perdere contro una squadra debole in un attimo. Quando si scontrano due squadre forti, vince quella che ha più fame di vittoria. Dipende chi ha più voglia.
Con il livello di pallavolo che c’è in tutto il mondo, chi avrebbe detto che l’Argentina sarebbe riuscita a vincere il bronzo alle Olimpiadi? Nessuno! Prima di loro c’erano altre potenze mondiali, nessuno aveva pensato all’Argentina come possibile candidata. E nonostante ciò, l’Argentina è stata la sorpresa dei Giochi Olimpici.
Se guardavi gli argentini in campo, e una palla andava verso la tribuna, correvano in sei giocatori a prenderla. Lì è stata la differenza con gli altri: loro avevano voglia, fame, grinta. La squadra aveva un’unione tra di loro unica, e questo, si percepiva da fuori. Cuba sarebbe potuta essere una potenza se fosse successo questo.
IL BRONZO ARGENTINO
– Quale è stata la tua reazione quando Argentina ha vinto la medaglia?
– Oh, sono rimasto scioccato! Non se lo aspettava nessuno. In realtà, sono rimasto senza parole quando sono passati alle semifinali. In quel momento non ci potevo credere, mi sono emozionato tantissimo. La partita contro l’Italia è stata la partita più incredibile di tutte. Purtroppo, non ho potuto vederla, perché non c’era la trasmissione a Cuba. L’ho seguita su Internet. Ma ho sofferto molto, perché sapevo che sarebbe stato un grandissimo scontro. L’Argentina aveva un livello molto alto e l’Italia stava scontrando dei problemi. Quindi mi sono detto “questo è il momento dell’albiceleste”. Era una gara secca e qualsiasi cosa poteva succedere. Ed è successa! Quella è stata LA partita.
– Quanto importante è stato per te il gioco contro il Brasile
– Il bronzo secondo me era un po’ più prevedibile. La sfida del bronzo è più una cosa psicologica. Il Brasile è andato alle Olimpiadi per vincere l’oro e quando perse in semifinali contro la Russia, una partita che tranquillamente potevano vincere, perché i pronostici erano della loro parte, credo che contro l’Argentina non ci stessero più con la testa. E la squadra di Lucho se ne è approfittata molto bene.
– Oltre la tua amicizia con Luciano, per quale altro motivo il bronzo dell’Argentina ti è rimasto impreso?
– Sono stato molto contento non solo per lui, per tutti gli argentini in generale. Credo che questa squadra sia molto bella. Ho giocato contro Solè, Danani e si vede che sono persone umili, che si impegnano molto. Vederli così uniti e con quel livello, con Marcelo a guidare la barca, è stato unico per me.

Abbracci e sorrisi con un argentino ha lasciato un segno nella sua carriera: Marcelo Méndez
MARCELO MÉNDEZ, QUASI UN PAPA’!
– Cosa ti ricordi di Marcelo nelle due stagioni che hai condiviso al Sada Cruzeiro?
– Marcelo per me non è soltanto un allenatore, lui è famiglia. Lui con me si è comportato come un padre. Mi ha dedicato tanto tempo, chiacchieravamo molto. Se avevo un problema, ne parlavamo tranquillamente, e tutto si poteva risolvere. Quando hanno vinto il bronzo sono rimasto molto felice, anche per lui.

Momenti felici al SADA Cruzeiro , dove Simon e Marcelo hanno vinto tanti titoli.
– Quali segni ti ha lasciato a livello più tecnico?
– In Italia, ho avuto come primo allenatore Luca Monti. Mi era piaciuto molto. Dopo sono andato a giocare in Corea. Gli allenatori lì non sono buoni, perché sono allenatori locali. Fanno molte cose a livello fisico, ma non tanto tecniche, non hanno un sistema di gioco.
Invece dopo sono andato in Brasile. Marcelo mi ha praticamente insegnato a giocare pallavolo. Mi ha fatto vedere il volley in un’altra maniera. Al Sada ho migliorato tanto la battuta, la lettura dei muri al centro rete. La comunicazione interna con lo staff di Marcelo era molto buona, se avevo un dolore, dovevo dirlo, e con Mendez sapevo che potevo parlare di qualsiasi cosa.
Intervista: Gabriel Rosenbaun | Traduzione: Paola López Marchetti
Foto: FIVB/Archivo, NORCECA, Volleyball World, SADA Cruzeiro, Facebook Robertlandy Simón
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